Il 24% della popolazione europea, ossia 120 milioni di persone, sono a rischio di povertà o di esclusione sociale. Una delle principali caratteristiche è l’impossibilità di accedere ad appropriate quantità di cibo, o di alimenti di una certa qualità. L’8,7% della popolazione Ue non si può permettere un pasto di carne, pollo o pesce tutti i giorni.
E ora che dire della povertà che attanaglia circa dieci milioni di italiani; che dire della povertà più nera che colpisce cinque milioni di persone nel sud Italia! Sono cifre molto spaventose.
La crisi economica colpisce duramente le famiglie italiane; l’Istat ha diffuso gli ultimi dati che non sono per niente confortanti: la povertà galoppa e gli italiani restano al palo. Nel 2012, oltre tre milioni di famiglie si sono scoperte relativamente povere, un milione e 725 mila lo sono in termini assoluti. Significa che mentre le prime possono spendere in un mese 990,88 euro — se i componenti sono due, altrimenti la cifra va maggiorata in base al numero dei familiari — le seconde hanno a disposizione una cifra ancora più bassa. A sprofondare nella povertà sono state soprattutto le famiglie composte da quattro o più persone: le mamme e i papà che hanno messo al mondo tre figli o più e che si sono ritrovati senza un soldo in tasca sono passati dal 10,4% al 16,2. E se i figli sono minori è anche peggio. La situazione più drammatica è al Sud dove la povertà aumenta sensibilmente anche nelle famiglie di impiegati, dirigenti e imprenditori. Ed è povera la metà dei nuclei con un disoccupato capofamiglia.
Approfondiamo quanto riferito finora.
Le cifre dell’Istat rappresentano con chiarezza ciò che è accaduto. Parlano di povertà relativa che in Italia è passata dall’11,1 al 12,7% delle famiglie, ma è in realtà la media “bugiarda” tra un Nord al 6,2 e un Mezzogiorno al 26,2%, ben 20 punti in più. Significa che al Sud è sotto la povertà relativa oltre un quarto di tutte le famiglie, e se il capofamiglia perde il lavoro, la povertà colpisce subito un nucleo su due, visto che si tratta in gran parte di monoreddito. E ancora, un livello di istruzione medio-alto, l’essere impiegati o addirittura dirigenti, non proteggono più, di per sé, dal rischio povertà. Nulla è più sicuro, assodato, quando il lavoro è incerto.
Tanto che l’unica categoria in lieve miglioramento ora è quella dei pensionati, in qualche modo “protetti” dal (pur magro) assegno Inps. La “vecchia” povertà ha lasciato il posto a una nuova precarietà diffusa, trasversale, immanente e pervasiva.
È però in particolare la progressione del rischio correlato al numero dei componenti della famiglia ad essere impressionante.
Il Paese che frana è questo: sono gli impiegati licenziati al Nord, che a 50 anni nessuno vuole più. Sono gli operai del Sud in cassa integrazione perenne, assieme ai giovani precari a vita. Sono soprattutto i genitori che hanno fatto “la pazzia” di realizzare un progetto di vita. E si ritrovano soli, senza aiuti e il giusto riconoscimento, ad affrontare la crescita dei figli. Occorre agire per rilanciare l’economia e il lavoro, in particolare nel Mezzogiorno, con misure di stimolo alla crescita e di miglior utilizzo dei fondi disponibili. Quindi mettere in campo programmi specifici di lotta alla povertà e di inserimento sociale.
La politica non deve puntare all’abbattimento dello Stato sociale e democratico, erodendo i diritti sociali, pena la crescita delle diseguaglianze e il conseguente indebolimento della democrazia partecipativa. I partiti debbono avere come punto di riferimento i diritti e doveri dell’uomo considerati come unità indivisibile, e non possono essere privi dell’orizzonte del bene umano integrale.
Al riguardo ognuno di noi auspica meno tasse, specie per le famiglie.
Poi un fisco giusto, non vessatorio né ricattatorio, è strumento decisivo di regolazione dello Stato sociale, insieme a un sistema sostenibile di previdenza. Entrambi devono essere servi certi e non un minaccioso assillo.
Soprattutto, non si può attendere ulteriormente per varare anche un intervento significativo, uno choc positivo sul piano fiscale, che ridia equità al sistema e ossigeno immediato alle famiglie. Sostenerle nel loro compito di cura, riconoscendo i diversi pesi di cui si fanno carico – attraverso un sistema come il “quoziente familiare” o il “fattore famiglia” – per garantire un maggior reddito disponibile ad ogni nucleo rappresenta la prima forma di assicurazione contro il rischio povertà.
Lo Stato non deve considerarsi il centro unico, la sintesi della società. I partiti non sono i padroni della cosa pubblica, disponendone a piacere come di una cosa privata; la politica deve guardare alla complessità del tessuto sociale, avere un ruolo di coordinazione, di ascolto, favorire la partecipazione degli organismi intermedi per non condannare milioni di cittadini a un dramma e il Paese a una tragedia collettiva.
Don Camillo Perrone, Parroco emerito di San Severino Lucano