Sono in pieno svolgimento i mondiali di calcio -Brasile 2014- e questo gioco ci offre degli spunti. E ci sarà capitato di vedere una partita di calcio o leggere qualche volta un quotidiano sportivo. Il linguaggio è molto ricco: si parla di pressing, di catenaccio, di rigori; di tempi supplementari e di melina; di gioco duro e di sgambetti; di arbitri e di allenatori; di gioco a tutto campo (oggi il termine si usa anche in politica), di panchina, di ritiri, moviola e marcature. E tante cose ancora! Qualche volta mi sorprendo a pensare che, in fondo, la vita umana rassomiglia tanto a una partita di pallone. S. Paolo, del resto, paragona la vita dell’uomo all’atleta che corre in pista per raggiungere la meta. Una partita tutta da «giocare»! E giocarla a tutto campo, in pressing, all’attacco. In palio non c’è la coppa del mondo ma qualcosa di molto più importante. Certo, ci sono anche gli «avversari» e sono le tante avversità della vita.
La vita umana e’ costellata di prove, di duri ostacoli, mali fisici e morali… inoltre e’ spesso banalizzata e cosificata: abbondano idee errate in merito.
Occorrono – per vincere la partita della vita – bravi allenatori che in questo caso sono gli educatori, occorre costante allenamento cioè impegno. Sacrifício, carattere, ottimismo, accettare anche le sconfitte… sono i postulati di sempre per la riuscita.
Facciamo parte di una grande squadra e la partita si vince insieme. Ci toccherà far “panchina” e allora e’ necessario farsi trovare sempre pronti per giocare. La vita e’ accettare l’impossibile, fare a meno dell’indispensabile e sopportare il sopportabile, quindi accettare le difficoltà del presente e l’incertezza del futuro. Le condizioni del «terreno» sono queste; la vita è sempre ricca di «avversari»! Forse per questo nel mondo c’è troppa gente che ha perso la voglia di «giocare». Chi da tempo adopera il catenaccio, si è chiuso in difesa e si è messo in aspettativa del triplice fischio di chiusura; chi preferisce restarsene in ritiro in santa pace, chi gioca senza impegno o a rallenty; chi ha appeso le scarpe al chiodo e ora comodamente critica la partita dagli «spalti»; chi con cattiveria commette falli o per invidia fa sgambetti; chi pretende di vincere la partita a «tavolino»; chi invade il ruolo altrui o cerca ruoli nuovi per avere più grati-fiche; chi si rifugia continuamente in calcio d’angolo… evitando gli avversari; chi gioca per l’applauso o solo su ingaggio; c’è pure chi litiga troppo spesso con l’Allenatore, perché severo solo con alcuni e chi si scaglia contro l’Arbitro, perché estrae troppo spesso i «cartellini».
Per vincere la partita della vita dobbiamo resistere nel nostro dovere, nel nostro lavoro, nel fare il bene malgrado tristezze, fatiche fisiche, psicologiche, malinconie, forse nostalgie di situazioni diverse. Dobbiamo resistere nel bene non solo quando ci sono i nemici interni, come appunto la fatica e la frustrazione, ma pure quando i nemici vengono dall’esterno: incomprensioni, maldicenze, strumentalizzazioni, calunnie.
Possiamo a vicenda discutere sulle nostre rispettive idee, possiamo contestarci, contraddirci, rifiutarci… tutto su di un piano di idee. Ma la vita no! La vita è nelle nostre mani, non la si può discutere o rifiutare o accantonare. Anche se fosse tutta sbagliata la vita è un fatto irrefutabile, è lì, la respiriamo ogni giorno, la gustiamo allegramente o la sopportiamo banalmente ogni mattina! Proviamo dunque a guardare in faccia la vita e a farci delle domande, delle grosse domande che non vorremmo magari veder salire a gala, perché ci scomodano troppo, ci mettono un po’ i brividi e ci lasciano spesso di stucco.
E’ questa una faccenda che riguarda tutti, senza problemi di età. Persino i vescovi, durante il Concilio, non si sono tirati indietro e hanno rilanciato a tutti (credenti e no) questa palla pesante con su scritto: «che cos’è l’uomo? che senso hanno il dolore, il male, la morte, che malgrado tanto progresso continuano ad esistere? le conquiste umane valgono il duro prezzo con cui sono raggiunte? l’uomo che cosa può apportare alla società? e cosa ci sarà dopo questa vita?» (« Gaudium et Spes», n. 10).
E senza essere dei campioni di calcio, questa palla la dobbiamo giocare tutti. Molti la scaraventano con una pedata chissà dove e fanno finta di non pensarci più. Altri giocherellano con infiniti passaggi (in cronaca sportiva si dice «melina», cioè si rallenta il gioco con una ragnatela di finezze ma senza cercare la rete). Altri invece con azioni grintose e veloci riescono felicemente a deporre la palla nel sacco e a far punti. È logico che noi vorremmo trattare la palla in questione proprio come questi ultimi. Si tratta di domande decisive: non si possono accantonare sbadatamente, neppure sono da trattare con le molle tanto per ricamarci su quattro chiacchiere da salotto. Invece ci pare che vadano affrontate coraggiosamente in blocco, senza rimandi e senza sdolcinature. E questo va fatto in ogni stagione della vita.
Con questa palla si può e si deve giocare sempre, anche quando i capelli si tingono di grigio e le gambe si fanno dure con i muscoli poco agili. Dunque con la vita bisogna fare i conti. Tutti dobbiamo prendere carta e penna, e provare ad abbozzare qualche conclusione. La pratica del « rinvio», così simpatica ai nostri politici (ma così antipatica a noi che ne dobbiamo fare le spese), su questo terreno, non vale.
Don Camillo Perrone, Parroco emerito di San Severino Lucano