SAN SEVERINO LUCANO [.com]

Paura

JackLondon” E così, passo dopo passo, facendo seguire a uno scavo dove poggiare il piede ad un altro scavo dove poggiare l’altro piede, minuscola particella di vita che arranca faticosamente sospesa in aria come una mosca sulla parete  della Mooseshide Mountain, si aprì un varco verso l’alto.”

(Jack London, tratto da: “Un’arrampicata sulla slavina”)


Aveva aggirato il fianco della montagna e s’era portato dietro l’altro versante, e adesso la serra appariva completamente diversa, mostrando un volto meno dolce e rassicurante. Piegò nella foresta attraversando un dente di roccia che si ergeva come un castello. Abeti, pini, pioppi e faggi convivevano su questo sperone, la cui cima era presidiata da un vecchio pino fantasma. C’erano alberi piccoli e grandi che crescevano sulla roccia, aggrappati ad essa sembravano fuggire la terra per ritirarsi in alto su quelle nude superfici di pietra. Passò accanto al costone roccioso dove c’erano quei tre pini con le radici scoperte, disperatamente attaccate al terreno. Resistiamo sembravano dire, da qui non ce ne andremo mai. Poi vide il pino bruciato lo scorso anno. Si ricordava l’enorme tronco con le possenti radici aggrappate alla roccia. Un albero maestoso ora accasciato a terra, con lo scheletro bianco annerito dal fuoco. Non era stato il fulmine a ridurlo così ma la mano consapevole di un uomo. E adesso quel cadavere arboreo sembrava il muto testimone di un’apocalisse silenziosa e inevitabile, di un male indecifrabile, nato tra i recessi di una lucida volontà annientatrice… Entrò nella foresta di faggio seguendo il sentiero e non vide più la serra. Sbucò in una radura e le montagne riapparvero. Quella più distante, a sud, mostrava il suo versante inaccessibile con pareti di roccia grigia che si espandevano dappertutto, su cui crescevano sparpagliati pini lontani che sembravano apparizioni fantastiche, di un mondo che esisteva solo nei sogni. Rimase per un po’ ad osservare quello spettacolo e si immaginò solo in mezzo a quella desolazione di roccia verticale. Poi proseguì per il sentiero e incontrò la biforcazione. Dove salire a destra, per raggiungere l’avvallamento situato tra le due montagne e il tracciato seguiva proprio il valico che le separava. A sinistra invece il sentiero continuava ad attraversare chilometri di foresta sterminata, popolata da laghetti e misteriosa come i lupi che la percorrevano ogni notte. Salì e ad un certo punto rivide il versante della montagna che stava a nord, molto più vicino. I pini erano aggrappati alla roccia e alla base delle pareti verticali c’era un tappeto di enormi massi rotondi, che erano rotolati negli anni giù da quel versante instabile che si sbriciolava di continuo attraverso i millenni. Stava quasi raggiungendo l’avvallamento ma non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle pareti verticali, da quella visione selvaggia che parlava di un posto ancora intatto, forse mai percorso da nessun uomo. Mentre saliva prese la decisione: sarebbe arrivato al tappeto di massi e avrebbe tentato di scalare quei pendii rocciosi così ripidi e scoscesi, per arrivare sulla sommità della serra. Vista da lì la scalata non pareva così difficile. Ma le montagne ingannano sempre da lontano. Abbandonò il sentiero e si diresse in alto; doveva superare un tratto di bosco intricato per poi sbucare sul tappeto di massi. Il bosco appariva davvero qualcosa di primordiale e là, mentre superava gli ostacoli che la vegetazione intricata gli frapponeva, sentiva che una forza vitale e un’agilità istintiva si accumulavano lentamente in lui. Si sentiva un estraneo, lontano dalla civiltà, anche perché là difficilmente qualcuno avrebbe potuto trovarlo e questa considerazione non faceva che dargli ancora più euforia. Sbucò in un tratto scoperto e sopra di sé, abbarbicati sul ripido pendio che degradava nel bosco, apparvero i pini loricati, che brillavano al sole sotto lo sfondo di un cielo di un cupo colore azzurro. Ritornò a salire facendosi largo tra le piccole macchie di faggio e si ritrovò alla base del tappeto di massi. Una desolazione bianca abitata dalle piccole lucertole di montagna. Lo attraversò saltando da un masso ad un altro e riuscì finalemente a raggiungere la base della parete. Piccoli pini crescevano a stento tra quelle rocce arse perennemente dal sole. Iniziò a salire la parete, aggrappandosi agli appigli di roccia. Le rocce erano instabili, il terreno franava e il pietrisco scivolava sotto i piedi. Il cuore gli palpitava e il sudore gli colava dalla fronte sotto quel sole cocente, bianco come le pietre che esso illuminava. Ma nonostante tutto continuò nella scalata. Procedeva lentamente, tastando gli appigli con le mani e assicurandosi che il terreno non franasse sotto i piedi. Raggiunse delle rocce compatte ma adesso la parete diventava completamente verticale. Sotto di lui intanto era cresciuto il vuoto e il tappeto di massi s’era fatto ormai lontano; sembrava un materasso messo là per accelerare, piuttosto che evitare, la morte di chi fosse incidentalmente caduto dalla parete. Guardò in basso. Immaginò le sue mani che scivolavano dalla tenuta salda di quelle rocce e il corpo che volava giù parallelo alla parete e poi si schiantava sul quel materasso di pietra. Era arrivato quasi ad un punto di non ritorno. Avrebbe potuto proseguire nell’arrampicata ma se fosse scivolato, visto l’elevato grado di pendenza della parete, sarebbe volato giù e quel tappeto di massi sarebbe diventato il suo letto di morte. Una morte che magari sarebbe arrivata dopo la lunga agonia di un corpo dissanguato e dalle ossa frantumate, dove palpitavano ancora i sussulti della vita. Cominciò a tremare e sentì che un principio di disperazione iniziava ad assalirlo. Pensò alla sua famiglia, al padre, alla madre e ai fratelli, alla nonna, e li vide tranquilli nel soggiorno di casa, inconsapevoli di dove egli si trovasse, con i volti preoccupati, carichi di apprensione. Si sentì davvero solo e come estraniato dal mondo. Ma riuscì ad essere più forte del panico che voleva invaderlo e cominciò a riflettere razionalmente sul da farsi. Devo stare calmo adesso, diceva tra sé. Doveva assolutamente tirarsi fuori di lì e cercare un’altra via. Non restava altro che scendere tornando indietro per un tratto e poi salire in diagonale la parete, trasversalmente, per poi raggiungere un punto dal quale si sarebbe potuto arrampicare facilmente fino a sbucare nei pressi della sommità della montagna. Conclusione che avrebbe rappresentato anche la fine di quell’avventura. Lentamente scese e riuscì per due volte a non scivolare mentre il pietrisco cedeva sotto gli scarponi in vibram. Pensò che era una fortuna avere quelle scarpe. Adesso stava costeggiando la parete procedendo in diagonale. Aveva già individuato il prossimo obiettivo: uno sperone di roccia in alto a forma d’artiglio, perpendicolare alla parete, in mezzo al quale sarebbe passato; un’ insenatura nella roccia che lo avrebbe sicuramente condotto sotto la cima della montagna. Si ricordava che in quella zona dei lastroni di roccia scendevano come scalini lungo il dirupo: da lì non sarebbe stato difficile arrampicarsi. Adesso doveva di nuovo salire. Altro pietrisco scivolosco. Franava sotto i suoi piedi e si trasformava in tante piccole pietre rotolanti lungo il pendio, che si perdevano nel vuoto con quel rumore sordo e carico di brutti presagi… Cadde giù in un istante e nemmeno se ne accorse. Il pietrisco sfuggì sotto le scarpe senza dare il preavviso e lui scivolò di colpo lungo il pendio fino a quando non si arrestò. Si rialzò col cuore palpitante, come se si ridestasse da un sonno veloce, tornò in sé e si accorse che il suo corpo era intatto e che andava tutto bene. Era andato giù di una decina di metri, strisciando su quei sassolini aguzzi. Poi vide che il braccio era insanguinato. Il gomito si era lacerato, lasciando intravedere l’osso, e le ginocchia si erano graffiate. Ok, non è successo niente, ripeteva fra sé. Proseguì nei suoi intenti e lentamente, facendo attenzione a dove posava i piedi e tenendo sempre la mano appoggiata alla parete, per non perdere l’equilibrio, riuscì finalmente ad arrivare all’artiglio di roccia. Quest’ultimo gli sembrava un soccorritore mitologico che lo stesse aspettando al varco per condurlo verso la salvezza. Quando passò nell’insenatura che stava tra l’artiglio e la parete si sentì risollevato e capì per istinto che il peggio era passato. L’istinto del pericolo era uguale all’istinto della salvezza e in mezzo ai due stava l’incoscienza, che é la parte più importante, perché è qui che hanno luogo la maggioranza delle nostre azioni. Trovò i gradini di roccia e nonostante stesse ancora arrampicandosi sull’orlo di un precipizio capì di essere a contatto con un terreno solido, rassicurante nella sua veste di pietra. Raggiunse la sommità della montagna e raggiunse anche la serenità. Ce l’ho fatta disse, ce l’ho fatta come sempre, pensò con l’inevitabile orgoglio che attende sempre chi supera le prove più difficili. Si era lasciato alle spalle il versante dirupato e adesso stava in un giardino popolato da giganteschi pini che come bonsai ornavano le rocce di quella montagna. Quello sì, era un posto per gli uomini, per i vecchi e per i bambini, dove non c’era ombra di pericolo ma solo serenità e pace. Là il dio della natura era il sommo giardiniere, che aveva creato quel luogo per sugellare con le forme del legno e della pietra la sua grandezza manifesta. Sorrise alla vista del giardino degli dèi invisibili e cominciò a scendere lungo i sentieri che aggiravano i suoi meandri, per raggiungere la fontana e lavare tutto quel sangue che gli s’era asciugato addosso…

Saverio De Marco

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