Da piccola avevo lunghi capelli neri che amavo farli pettinare a zia Carmela, la sorella di mio nonno. Aveva uno strano e dolce modo di pettinarmi.
Lei era nata nel 1907 ed era abituata a quel lungo rituale mattutino, quando le donne portavano tutte lunghi capelli da raccogliere a “tuppo” ( tuppè). Le donne non lavavano spesso i capelli e la mattina per pulirli dallo sporco e da eventuali pidocchi, li “scaravano”. Mia zia continuava a “scararmi” i capelli, nonostante l’accorto shampoo della mamma. Me li metteva tutti davanti al viso e poi “a tagghi a tagghi”, cioè ciuffo per ciuffo iniziava a districarli con “u scaraturu”, un pettine dai denti sottili. Per me quell’operazione fatta con amorevole delicatezza era solo una sua lunga carezza.
Quando andavo a casa di zia era obbligatorio bussare alla porta smaltata di verde e aspettare che mi aprisse. Mi apriva e mi faceva entrare senza mai sorridermi.
Era una donnina esile, dal viso austero e lentigginoso, di circa 60 anni ma come tutte le sue coetanee lo aveva segnato da una fatica antica che sembrava ne solcasse anche l’animo. Indossava un’ampia gonna nera che arrivava fin sotto il ginocchio, arricciata in vita, una camicia di stoffa pesante con maniche a tre quarti e dietro la nuca legava un fazzoletto scuro (u maccaturu).Era vestita così in ogni stagione dell’anno.
Entravo in quella piccola casa dai mobili smaltati di azzurro, con una grande tenda beige a fiori rossi che nascondeva il letto. Vi era in quella casa un profumo di pere cotte che molte volte ero costretta a mangiare simulando lo stesso entusiasmo che mostravo per una cioccolata. I suoi pranzi erano sempre leggeri, avevano qualcosa di buono e di unico. Preparava delle tagliatelle sottilissime su cui riversava del latte caldo e questa era una sua specialità perché, crescendo, non ho mai più visto tagliatelle così sottili e tutte della stessa lunghezza come quelle della zia.
Avevo tante bambole ma la bambola di zia Carmela la preferivo davvero a tutte, forse perché mi affascinava sapere che aveva giocato anche lei in quel modo da bambina.
Iniziava ad arrotolare un asciugamano e ne legava ad un’estremità un pezzo con un fazzoletto per fare la testa della bambola. Era tutto qui quel gioco che io amavo così tanto!. Mi piaceva poi quando mi avvicinava il mio indice al suo recitando un’insensata ma simpatica filastrocca:
“Pingula pingula mia cudina a cavallu alla riggina,
la riggina a gghiuta a Spagna e cu setti castagni,
castagne e catagnoli levi la coppula a monsignore ,
monsignori avìa nu cani ca muzzicava li cristiani,
muzzicava li donni belli
iessi tu ca si chiù bella”.
Oppure mi sedeva a cavalcioni sulle sue ginocchia, mi afferrava le mani e dondolandomi avanti e indietro cantava: “Serra serra pane guerra,serra a mia serra a tia e lu gatti i za Maria”.
Un altro gioco era quello di prendermi la mano e iniziare a dare nomi alle mie dita, dal pollice al mignolo: “Accida piducchi, licca piattu, u chiù luongu i tutti, fiori d’anello e pipirinellu”.
Molte volte mi proponeva degli indovinelli come questo: “ih l’agghiu tu l’hai tu dicu e nu nu sai, chi ghiè?”.( era l’aglio, chamato in dialetto agghiu).
Quando voleva farmi dormire, mi cantava una dolcissima nenia con la quale aveva fatto addormentare mio padre bambino:
Ndring ndrin li campanieddi
ca Maria vinìa da Roma
cu setti virgineddi chi
purtavani la curona.
Non mancavano storie di Santi. Mi raccontava che Santa Lucia era una bellissima fanciulla dagli occhi azzurri, così bella che un re la voleva in sposa ma lei che amava Gesù lo rifiutò e così il re ordinò ai gendarmi di strapparle gli occhi per riporli in una bacinella da mostrare a tutti . Santa Lucia rimase senza i suoi occhi ma continuò ad essere bella e ad essere la protettrice dei ciechi.
La fede ha accompagnato tutta la sua vita, oltre alle messe, recitava ogni sera il rosario e raramente mi permetteva di ospitarmi mentre pregava ed io non me la prendevo, avevo capito quanto quello fosse un momento alto e privato per lei e istintivamente lo rispettavo.
Nei giorni assolati, zia mi portava a fare delle lunghe passeggiate. A volte salivamo sopra Mezzana, per raccogliere rami secchi che legava con una corda e si metteva sulla testa. Camminavamo così, con una mano manteneva sul capo la legna raccolta e con l’altra teneva la mia mano. Stringere la sua mano era rassicurante, rispondere ai saluti della gente che incontravamo per strada, era piacevole, così come lo era starsene all’ombra di un albero, ad osservare la zia mentre curava le sue pianticelle, discorrendo con chi zappava l’orto confinante.
La domenica andavamo assieme a messa. Era una tortura starmene ferma e zitta per un’ora intera, ad ascoltare il prete senza mai riuscire a capire ciò che diceva. Dopo il segno della croce mi sedevo e pensavo al modo per distrarmi pure quella domenica. Iniziavo a fissare i banchi smaltati d’azzurro, alzavo gli occhi e restavo incantata da quei lampadari enormi, dai quali scendevano delle lunghe catene.
Il momento più bello era sentire il prete dire:” la messa è finita andate in pace”. Mi aggrappavo alla mano di zia e mi chiedevo chi avremmo mai incontrato per la strada del ritorno, magari una delle sue care amiche .
Adoravo zia Domenica l’amica ”giuvinedda”, non sposata, come zia Carmela. Da bambini chiamavamo tutti zii e zie, una forma di rispetto verso le persone anziane.
Zia Domenica era vestita sempre di blu e quel colore si abbinava ai suoi occhi azzurro intenso. Viveva con la nipote ormai adulta, rimasta orfana da bambina. Mi piaceva quando zia mi portava a casa loro, la loro casetta, somigliava molto a quella di mia zia e a volte c’era persino lo stesso odore di pere cotte. Ricordo con tenerezza quelle serate in cui zia sfilava le maglie e zia Domenica raccoglieva la lana in un grosso gomitolo.
C’era poi zia Mariangela, bravissima a fare le punture, abbandonata assieme alle sue due bambine dal marito, partito per l’America e zia Ncicca, un’anziana signora cieca che aveva sempre posato in testa un fazzoletto bianco; mi regalava zollette di zucchero che a dire il vero, io bambina degli anno “80, abituata a cioccolate e caramelle di ogni genere, detestavo ma prendevo lo stesso, per non farle un torto.
A settembre, le amiche di zia, venivano ad aiutare la mamma a togliere le foglie dalle pannocchie di gran turco ed io e le mie amichette facevamo a gara a chi lavorava di più per trovare la pannocchia di mais rosso denominata “ a sciorta”, la fortuna. Trascorrevamo così intere serate.
Erano tante le amiche di zia ed erano sue amiche da una vita e ognuna era sostegno per l’altra. Nel nostro dialetto più antico si diceva :”ci stimiamo” oppure “ci vogliamo bene”, rare volte si usava la parola amicizia.
L’amicizia era questa: stima e bene, non era solo un sentimento o una casualità l’essere amici ma un atto quotidiano, una sicurezza. Ci si sosteneva nei momenti difficili e ci si aiutava l’uno con l’altro nei lavori più duri. Zia era sempre disponibile con le sue amiche come lo era con i suoi nipoti. Lei non si era mai sposata e come tutte le donne non sposate di allora, era avvezza a prendersi cura di tutti, lo aveva fatto con i suoi genitori, poi con i suoi nipoti e adesso con i figli dei suoi nipoti. Non era abituata a baci e carezze ma lei ci dava molto di più, ci trasmetteva l’aspetto più vero dell’amore, quello che ci dice che ogni rapporto umano va vissuto con serietà,rispetto, gioia e dedizione.
Forse ognuno di noi ha nei suoi ricordi una zia Carmela, una persona anziana che ci ha aiutato a farci vivere un’infanzia felice.
Ogni bambino meriterebbe una persona che tramandi un po’ della sua memoria, dei suoi valori più belli, qualcuno che lo ami con autorevolezza.
Carmela De Marco