(racconto scritto nel 2009)
“…poi pensò al padre che era morto in quella terra e pianse nudo sotto la pioggia.”
(Cormac Mc Carthy )
La montagna che percorse assieme a suo padre appare sempre la stessa, ma in realtà tutto viene mutato dal fluire del tempo.
Spesso ha la sensazione che tutto ciò che vede sia inafferrabile, transitorio, provvisorio… Ha ritrovato alberi maestosi abbattuti dai fulmini, o bruciati dagli uomini oppure in procinto di rinsecchirsi.
Vorrebbe a volte fermare il tempo e altre volte vorrebbe che fosse già passato, per rimarginare le ferite inferte alla terra. Sì, a volte vorrebbe fermare la bellezza del mondo, sottrarla alla paura della violenza del tempo. Ma in realtà questo eterno ciclo così tormentato della natura è per lui anche fonte di consolazione.
Si rattrista se ritrova un uccellino morto per terra, caduto dal nido, svestito della bellezza della vita, ma poi si risolleva quando nello stesso momento può ascoltare il cinguettio degli uccelli del bosco, con la loro armonia che ritorna ad ogni sorgere del sole. La morte ridiventa preludio alla vita, ma ad ogni ciclo qualcosa scompare per sempre. Sa che ritroverà gli stessi animali nel bosco, ma sa anche che non saranno uguali a quelli che avevo visto tanti anni fa, se non per il loro mantello o il piumaggio.
Tutto scompare e tutto ricompare, ma solo in apparenza sotto le stesse vesti. I sentieri di quella foresta che attraversò in compagnia di suo padre per la prima volta scompaiono, o diventa flebile la loro traccia; altre strade si creeranno, o verranno riscoperti gli antichi tracciati. Ma sempre potremmo avvertire che quei passi ci sono ancora, anche se invisibili.
Il ricordo è un’immagine sfumata, inafferrabile, imprecisa. Ma esso rimane dentro di noi, e quello che vedremo in futuro lo vedremo sotto il riflesso di quell’immagine sfuocata. Il ricordo ci aiuterà a riconoscere ciò che avremo di fronte, sia le cose nuove e sia ciò che conoscevamo, pur avendolo dimenticato… Il ricordo di chi ci ha dato la vita, di colui che non potremo più vedere né sentire accompagnerà sempre il nostro cammino, e la sua voce ci continuerà a parlare, anche senza poterla più ascoltare…
L’alba spuntò sulle valli, e il cielo cominciò a risplendere della luce del sole nascente, tingendosi di un azzurro cupo. La luce arrivò subito portandosi dietro di sé la meraviglia della sua improvvisa apparizione. Il padre aveva portato con sé il figlio, perché sapeva che al figlio piaceva la montagna, piaceva camminare per i sentieri e i boschi esplorando quel mondo vicino ma così sconosciuto. Alcune volte si era avviato da solo dandogli non poche preoccupazioni. Perciò aveva capito che era meglio se gli permettesse di venire con lui. Era estate e i boschi si erano riempiti di funghi. Il padre disse al figlio di cominciare a rovistare in prossimità delle macchie di faggio, sotto i rami. Il ragazzo trovò dei porcini grandi, dal cappello marroncino e dalla carne bianca, ma non era sicuro se fossero buoni, perché gli sembravano chiari e così li fece vedere al padre. “Certo che sono buoni, sono chiari perché crescono in prossimità dei faggi”. Questo è il porcino dei faggi, un fungo molto delicato, forse anche migliore del porcino scuro dei querceti”. Continuarono a rovistare e contemporaneamente a salire verso la barriera della grande foresta di faggio e abete bianco. Era la prima volta che il padre lo portava con sé così lontano. Una volta a scuola il professore aveva domandato in classe quale fosse il desiderio immediato di ogni alunno. Alcuni avevano risposto una bella macchina, altri una bella casa… diventare pilota di formula uno. A lui , il primo desiderio venutogli in mente era stato “vorrei andare con mio padre sulle montagne”, e gli altri e il professore lo avevano quasi ridicolizzato. Il ragazzo non aveva mai visto gli enormi abeti così da vicino. Da casa vedeva spuntare le loro cime nella foresta e gli sembravano appartenere ad un mondo bellissimo e misterioso. Procedettero nel salire verso una radura, nella quale uno zampillo d’acqua sorgiva rumoreggiava nell’aria. Gli disse il nome delle fontana. Tutto aveva un nome in quella foresta in apparenza dimenticata da Dio e dagli uomini. Il padre via via gli insegnava i posti migliori dove i funghi crescevano. “Nascono sempre nello stesso posto. Perciò è inutile camminare per ore e ore senza meta. Devi ricordarti precisamente i posti dove crescono. Soprattutto il porcino è il fungo più abitudinario. E poi devi stare attento, perché a volte non si vedono, passi vicino e non te ne accorgi”. Attraversarono un fossato e una radura dove cresceva un tipo d’erba dagli steli sottilissimi: anche quella radura aveva il suo nome. “Quest’erba è molto scivolosa; stai sempre attento quando ci cammini sopra”. Si inoltrarono nella foresta dove gli abeti ormai dominavano con i loro tronchi secolari. Il loro cane da caccia si divertiva a scorrazzare libero per la foresta. Ogni tanto il cane si perdeva di vista e il padre lo fischiava con il suo personale richiamo. Il padre stava sempre in apprensione se il suo cane da caccia si assentava per troppo tempo. Percorrevano dei sentieri che si districavano come labirinti nella buia foresta e ogni tanto il padre si fermava e dava un’occhiata in giro per orientarsi. Trovarono lungo la strada tante varietà di funghi. Il padre rivelava al figlio il loro nome popolare in dialetto e le loro proprietà. Ogni specie aveva una personalità, come del resto qualsiasi essere della terra. Alcuni come i porcini si mimetizzavano, altri si nascondevano a gruppi sotto le foglie; poi c’erano quelli che si vedevano in lontananza, come le mazze di tamburo. Il fungo che il ragazzo trovò più interessante era però il fungo dell’abete. Il padre disse al figlio che questo fungo si chiamava “abetino”, perché cresceva sempre vicino agli abeti e aveva il loro stesso profumo. Le sue lamelle producevano un lattice rosso come il sangue. Il ragazzo amava scovarli sotto le macchie di abete, mentre risplendevano da lontano nella penombra, con il loro vivo colore arancione. Il figlio a volte si stancava a camminare e avrebbe voluto fermarsi. Ma non osava dirlo al padre, perché voleva dimostrargli che poteva portarlo con lui e che non si sarebbe mai stancato. Il ragazzo sarebbe voluto diventare forte e tenace e avrebbe voluto avere delle buone gambe come lui. Ormai erano saliti parecchio e respiravano la verginità dell’aria fredda dell’alta montagna. Il cane ad un certo punto aveva rizzato il pelo, senza né abbaiare né digrignare i denti. “Se il cane ha rizzato il pelo a quel modo è perché ha sentito la presenza di un selvatico, forse proprio la presenza del lupo. Altrimenti la cosa non si spiegherebbe”. Il fantasma si aggirava accanto a loro, solitario e pauroso. Il ragazzo ebbe la sensazione di trovarsi finalmente al cospetto del mondo selvaggio, quel mondo di cui leggeva nei romanzi d’avventura e sul quale amava fantasticare. Sbucarono in un pianoro bellissimo, baciato dalla luce dorata del sole e il ragazzo vide la cima della montagna ormai vicina. Ammirò la sua selvaggia bellezza e i suoi occhi si riempirono di stupore quando osservò i pini loricati aggrappati alla roccia come tanti guardiani remoti e misteriosi. “Ci siamo allontanati troppo salendo. Adesso dobbiamo scendere”, disse il padre. Dalla foresta di faggio scesero costeggiando i fossati che portavano l’acqua a valle attraverso i boschi, raccogliendo i funghi che incrociavano per caso e parlando degli animali e delle piante del bosco. Il padre imitò il verso del colombaccio e disse che era un uccello molto selvatico. Poi parlò degli alberi enormi che esistevano una volta. Ricordò con nostalgia un acero colossale, poi abbattuto dai boscaioli, sul quale si appollaiavano i colombi selvatici che lui cacciava, e che non riusciva a vedere per quanto fosse alto. Si ritrovarono poi nei pressi di un abete fatto a pezzi dal fulmine. Gli enormi pezzi squarciati erano stati sparati come proiettili a lunga distanza dal luogo dove si ergeva il tronco. Il padre disse che era molto pericoloso trovarsi nel bel mezzo di un temporale in una foresta di abeti. Ritornarono a valle attraversando alcuni pascoli e raccogliendo i funghi prataioli che crescevano in mezzo ai prati e poi si diressero nei boschetti di cerro, dove raccolsero tanti porcini neri. Il padre disse al ragazzo di non dover pensare che, solo per il fatto di andare in posti lontani, avrebbe per forza di cose trovato più funghi. I boschetti vicini al villaggio nascondevano anfratti dove se ne potevano raccogliere tantissimi. Ma sapeva che il ragazzo più che cercare funghi desiderava cercare i paesaggi dell’alta montagna. Non era ancora mezzogiorno quando discesero gli ultimi boschi prima delle strade del villaggio. Poi arrivarono finalmente sulla soglia di casa…
Saverio De Marco