Succedeva che a tarda ora, a rompere il silenzio di notti di luna, canticchiando canzoni di Claudio Villa, Celentano, Nada, Don Backy salissero voci allegre dal vicolo di casa mia. Era papà e i suoi amici al rientro dalla cantina. Capitava spesso che arrivassero a casa a tarda ora; la mamma doveva essere pronta a imbandire la tavola di soppressate, biscotti da forno, noci pane e vino. Le serate si concludevano quasi sempre a casa di uno del gruppo. Le donne erano abituate a questa consuetudine, a volte ne erano infastidite ma non potevano esternare il loro disappunto per non far sfigurare i loro mariti o i loro figli. In quelle serate goliardiche si scherzava sul presente e si ripercorrevano episodi simpatici del passato.
Vi era nelle loro parole la nostalgia forte per la giovinezza e la rabbia mai spenta per la faticosa infanzia. A quattro anni ì bambini iniziavano ì primi lavori pascolando il bestiame, a sei ,sette anni si lasciavano in montagna con la sola compagnia delle bestie. Avevano i loro giochi, perlopiù giochi di gruppo( “cavallo mondina”, “a mazzu e u zuddu”, il gioco con i carri, quello con il cerchio…) però erano anche avviati a possedere il senso del lavoro e di responsabilità nei confronti della famiglia. Tra i tanti giochi ce n’era uno stranissimo, un gioco fatto anche dai loro padri: la guerra con i bambini di Conocchielle, la frazione confinante con Mezzana. Il gioco consisteva nello scontro sui due versanti del ponte di legno che delimita il confine tra il territorio del comune di Viggianello e quello di San Severino : le loro armi erano le pietre. Una rivalità storica che continuò con toni meno violenti per decenni ,fino a dileguarsi, fortunatamente, con la mia generazione.
Ebbero la fortuna di uscire da quell’analfabetismo di massa appartenuto ai loro padri. Il corso di studi obbligatorio aveva la durata di cinque anni con il conseguente rilascio della licenza elementare. Le classi erano numerose, frequentate da bambini della stessa estrazione sociale. Nel nostro piccolo mondo esistevano uomini acculturati,di solito parroci, medici, avvocati che godevano di un gran rispetto dal “popolo ignorante“ e campavano proprio di questo. Il non saper leggere una qualsiasi lettera o documento portava questa gente a rivolgersi al “don”, appellativo che si dava a chi sapeva leggere e scrivere e le cui mani non erano sporche di terra. Arrivò dalla Sicilia, nei lontani anni “20, la prima maestra di Mezzana: qui si sposò e si stabilì. Negli anni Quaranta i bambini uscivano in anticipo da scuola per andare a pascolare. La maestra mandava a casa sua i bimbi per controllare se i fagioli nella pignatta non avevano preso fuoco e qualche bambino pascolava assieme alle sue bestiole anche la capra della maestra. Vi era nei confronti della figura della maestra un rispetto assoluto da parte della comunità, forse era rivolto in realtà più che alla persona, al sapere, alla conoscenza. Nella scuola di Mezzana, negli anni Quaranta durante i freddi inverni, ogni bambino oltre al quaderno e alle famose penne da intingere nell’’inchiostro, portava con sé un braciere. Un cugino di mio padre roteò il braciere facendosi finire addosso la brace, un’altra volta la maestra rischiò di provocare una strage dimenticando di aprire la finestra per ossigenare l’aria, insomma il braciere non era di certo un sistema di riscaldamento sicuro! La scuola era questa, tra una lezione e l’altra, tra una tirata d’orecchi e l’altra si pensava anche a svolgere il compito di piccoli uomini e donne con un carico di responsabilità imposto dalle famiglie e dalle circostanze del periodo storico che ci si trovava a vivere. A scuola s’insegnavano nozioni fondamentali per affrontare gli anni avvenire e questi bambini diventati ventenni scrivevano le lettere per conto dei loro genitori rimasti analfabeti.
Prive di regole grammaticali, con periodi contorti mostravano chiaramente che l’Italia era stata unita ormai da cento anni e qui si continuava a non saper parlare e scrivere l’italiano, s’iniziava ad ascoltarlo grazie alla radio e alla televisione ma quando si scriveva ne usciva un dialetto scritto, appena influenzato dalla lingua italiana!. Riporto alcune frasi di lettere datate anni Sessanta:
“Vi manto questa cartellina con i contributi unificati ti farmi un favori e ti non fare dallmeno che sino riporto tutti a navota non posso fare domanda di disoccupazioni di mia figlia”
“Caro zio mi fate il favore se è aperto quel mio sottoscalo me lo andato a chìudere perche non voglio che ci devono chiudere anìmali”
“Vi dico che giorno 15 sono venuti i miei figli qui stanno tutti bene vi salutano caramente come pure mio marito vi saluta caramente attutti di famiglia e io vi saluto e vi baci caramente sono tuo sorella”.
Figli della miseria e del fascismo hanno visto i loro padri partire per il fronte, alcuni ne sono rimasti orfani ed altri hanno riavuto un padre sconvolto dalla crudeltà della guerra.
Piccoli balilla, in marcia per la via della Manca cantando:
“ i bimbi d’Italia si chiaman Balilla Il suon d’ogni squilla… “, ignari di ciò che stava succedendo nel mondo, salvati dall’isolamento, non hanno visto bombardamenti, né razzie ma hanno sofferto lo stesso per un nemico sconosciuto, invisibile ma presente attraverso i loro papà, andati via chissà verso quale destino. Lo Stato, come nel 1915, si era ricordato di questa gente quando ebbe bisogno delle sue carni.
Questi bambini cresciuti nel periodo della guerra si ritrovarono ad essere giovani uomini negli anni di rinascita sociale ed economica. Fu nei primi anni Sessanta che iniziò ad essere garantito qualche servizio essenziale come ad esempio l’illuminazione pubblica esterna e quei giovanotti ingenuamente l’accolsero come un evento da festeggiare rimanendo tutta la notte fuori a godere della luce dei lampioni.
I1 1960 a Mezzana si ricorda come 1′ anno della “Sogene”. Iniziarono i lavori per la costruzione dell’acquedotto che porta le acque in Puglia. Per circa sei anni si ebbe un forte ripopolamento dovuto all’immigrazione di operai provenienti dal Nord Italia. Era tanto l’entusiasmo per quell’improvviso e inaspettato benessere che si sognò addirittura di distaccarsi dal comune di San Severino Lucano per avere un proprio municipio e, soprattutto, un proprio cimitero da quando ,in un inverno nevoso, gli uomini che portavano la bara a spalla furono costretti, a causa delle avversità del tempo, a seppellire la defunta lungo la strada, a Mezzana. Si ha ancora memoria di questo episodio, della defunta denominata a “Sciaravagghia”.
Le serate trascorrevano piacevolmente davanti al televisore delle cantine e delle sale degli operai . Finalmente si scoprì anche la commestibilità dei funghi porcini che prima dell’arrivo degli operai nessuno raccoglieva! . Furono anni di scambio culturale e di scoperta pur rimanendo radicati fortemente alla terra e alla montagna. Nelle notti d’inverno si andava a fare ” ù ‘ngannu à gurpa”. Ci si appostava lungo gli argini dei torrenti, muniti di mattone di terracotta e sacco per mantenere i piedi al caldo, attirando la volpe con il profumo di pezzetti di pane fritto, sparso nei paraggi. Praticata dai padri anche per integrare il fabbisogno alimentare di carne, visto che pecore e mucche non erano destinate alla macellazione ma alla commercializzazione e alla trasformazione dei prodotti caseari, la caccia era, insieme al gioco delle carte, il loro hobby preferito. Si percorrevano chilometri anche a piedi o in bicicletta, pur andare a ballare durante le feste organizzate nella casa di qualche ragazza carina, di loro gradimento.
Le donne, invece, impiegavano il loro tempo ad aiutare le mamme nelle faccende domestiche e nei lavori dei campi, ricamando il corredo nell’attesa che qualcuno le chiedesse in moglie. Molte di loro, si fidanzarono e si sposarono con gli operai immigrati.
Gli anni magici finirono con la conclusione dei lavori. Gli immigrati tornarono ai loro paesi e si rimase nuovamente senza lavoro. Ben presto ricominciò l’emigrazione, non più verso le Americhe ma verso il Nord Italia e quei quei ragazzi nati pastori, agricoltori e artigiani divennero presto operai delle fabbriche del ricco Nord mentre questo piccolo angolo del mondo si spopolava e incominciava a perdere la sua identità e cultura agropastorale.
Quei ragazzi degli anni Sessanta conservarono lo spirito di sacrificio e l’umiltà dei loro padri ma non vissero la rassegnazione e quella immobilità costrittiva poiché ebbero la possibilità di sognare una vita più comoda e dignitosa, per sé stessi e per i loro figli.
Il loro animo nobile, la loro giovialità e simpatia fanno parte dei miei ricordi più cari. Li ho visti piano invecchiare, oggi sono rimasti in pochi, vivono il loro tempo con un velo di nostalgia negli occhi , ricordano i tanti amici che si sono portati via la sana e giocosa allegria di quelle notti di luna, gli amici che non ci sono più, quei ragazzi degli anni Sessanta.
Carmela De Marco