UNA PERLA DEL CLERO ITALIANO: DON GIUSEPPE DE LUCA, GRANDE INTELLETTUALE E MERIDIONALISTA, MORTO NEL 1962, AMICO DI PAPA RONCALLI, DI PAPINI, UNGARETTI, PREZZOLINI, TOGLIATTI.
Durante la sua formazione acquisì l’amore per i libri che cominciò a raccogliere e custodire nella sua ricca biblioteca. Il suo amore per la cultura fu tale da non escludere ad intrattenere rapporti con uomini politici del tempo. Animatore della cultura del Novecento, scrisse per l’ “Osservatore Romano”. Fu grande amico di Papini, Ungaretti, Prezzolini e Palmiro Togliatti.
Era un tormento per Don Giuseppe De Luca ogni qualvolta che della Lucania si parlava soltanto in termini di lavori pubblici, anche se apparentemente poco o nulla avesse a che fare con i piani di riforme. Voleva che si procedesse a salvare gli archivi e le biblioteche pubbliche e private della Lucania, che lo Stato dedicasse anche un po’ delle sue energie per preservare il patrimonio culturale del Mezzogiorno: accarezzava anche l’idea di un dicastero tutto dedicato al problema degli archivi in Italia, in cui studiosi di parte laica e non laica riunissero i loro sforzi per conservare una ricchezza, la più grande ricchezza che abbia l’Italia, e che il mondo ci invidia.
Mons. De Luca afferma che l’uomo vive di una vita veramente umana, grazie alla cultura; essa, infatti, è ciò per cui l’uomo diventa più uomo, per cui accede di più all’essere ed al proprio essere. In altri termini, la cultura è manifestazione della identità personale, e quindi spirituale e trascendente, dell’uomo: è segno specifico della sua vocazione di libertà e del suo destino di immortalità.
Indugiando – come viene riportato da alcune fonti storiche – sulla causa della questione meridionale e del suo profondo sottosviluppo socio-culturale, don Giuseppe De Luca afferma “io sono dell’Italia meno italiana che esiste: dall’ultima Italia che si stende verso l’Africa e la Grecia, stata gran tempo l’albergo di vari signori, mai casa nostra soltanto, sicchè sembriamo, noi, senza volto; o almeno nessuno ce ne riconosce uno, solo, pensando, ognuno, le successive maschere” per evidenziare non solo la personale e collettiva condizione di disagio persistente in una realtà sociale: il Sud, ricco di sentimenti, ma deprivato di quelle condizioni elementari e necessarie per una normale esistenza civile ma per denunciare anche all’opinione generale del Paese le conseguenze che, sul piano sociale ed economico, hanno dovuto sopportare le comunità lucane nel corso della loro storia.
Ebbe viva don Giuseppe la passione meridionalista per cui più volte ribadì il suo ammonimento a “risolvere e non eliminare la questione meridionale” a “proporsi con concretezza e forza l’unità reale del Paese”, come “l’obiettivo intorno a cui far perno per ritrovare quella indispensabile e pregiudiziale unità di una più intensa coscienza nazionale”. Fu pressante il suo invito ad assumere la questione meridionale quale problema nazionale culturale “con tutta la drammaticità dei suoi nodi irrisolti”, per “costruire una politica generale del Paese, sollevandola dal labirinto di difficoltà che la rendono incerta ed inefficace”.
Un meridionalismo il suo, che si confronta, soprattutto con l’immagine di una moderna società industriale, che non poteva restare insensibile, a problemi che toccavano il suo sviluppo e il suo destino. Questo Paese industriale e moderno doveva confrontarsi con i limiti e le contraddizioni presenti nel più ampio quadro nazionale, doveva superare quei limiti che rischiavano di far arretrare tutto il paese, vanificando i risultati raggiunti.
C’è in lui la volontà di unire, in un comune sforzo costruttivo, le diverse realtà italiane, c’è l’aspirazione a creare un ponte tra le due Italie, non solo sul piano economico ma anche sul piano culturale e civile.
Mons. De Luca, morto proprio 50 anni fa stigmatizzava fortemente quelli che – secondo lui – consideravano i mali del Sud con gli occhiali di certo presuntuoso fanatismo scientista che fa dei meridionali una specie di sottoprodotto umano, o con gli occhiali di certa tradizionale borghesia avvocatesca e clientelare che la realtà del Mezzogiorno ha ridotto a puro esercizio letterario, o con gli occhiali di certi tecnici che il Sud investono con mentalità colonizzatrice.
Don Camillo Perrone, Parroco emerito di San Severino Lucano