Chi sbarca sulle nostre coste, arrivando prevalentemente dall’Africa subsahariana, nella stragrande maggioranza dei casi non è un profugo. Questo è quanto afferma, dati alla mano, la professoressa Anna Bono, docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Torino.
I dati dicono che dall’inizio dell’anno il numero di persone che hanno fatto domanda di asilo politico e che hanno ottenuto risposta positiva, si assesta intorno al 4%. Tutti gli altri non rientrano nei parametri previsti dalla convenzione di Ginevra, quindi non sono persone che hanno lasciato il loro Paese sotto la minaccia di perdere la libertà o la vita: non sono perseguitati.
Ormai è risaputo che chi vuole venire in Europa deve mettere insieme circa diecimila dollari per potersi appoggiare a un’organizzazione di trafficanti che provveda all’espatrio. Cifre elevatissime soprattutto se rapportate ai redditi medi dei Paesi di provenienza. Chi arriva generalmente appartiene al ceto medio o medio basso, ma non si tratta di indigenti. C’è chi risparmia, chi si fa prestare il denaro dai parenti, chi paga a rate, chi vende una mandria, però i soldi ci sono, i trafficanti vogliono essere pagati in contanti. È gente che ha una disponibilità economica.
In Africa i profughi sono milioni e milioni ma la quasi totalità di coloro che ottengono asilo non lascia il continente. I profughi sono più di 60 milioni, dato del 2015, di cui 41 milioni sono profughi interni, sfollati. Quando si vive in uno stato di conflitto o di pericolo ci si allontana solo il minimo indispensabile per mettersi al sicuro, pensando di poter fare ritorno a casa propria. La maggior parte delle persone si allontana restando all’interno dei confini nazionali, mentre un’altra porzione di persone oltrepassa i confini per essere ospitata nei campi dell’Unhcr anche per lungo tempo, come per il caso della Somalia. Benchè la diaspora somala sia una delle più numerose al mondo, a causa di vent’anni di instabilità e terrorismo, solo una parte dei profughi è fuggita all’estero: la gran parte ha oltrepassato i confini nazionali rifugiandosi nel vicino Kenya.
Molti arrivano ad esempio da un Paese come il Senegal che non è in guerra e vive un periodo positivo dal punto di vista economico. Da anni quasi tutta l’Africa presenta una crescita del prodotto interno lordo costante e in certi casi consistente. Il problema è che questa crescita non si traduce in vero e proprio sviluppo economico o umano, anche a causa della corruzione endemica e del malgoverno. Mass media, politici, chiunque parli di immigrazione utilizza emigrante, profugo o rifugiato come fossero sinonimi. Si tratta di un errore voluto, perché c’è la tendenza ad affermare che chiunque lasci il proprio Paese abbia una forma di disagio e dunque abbia il diritto di essere ospitato. Questo approccio si traduce in ciò che vediamo: centinaia di migliaia di persone in marcia per arrivare in Europa, molti dei quali non sono indigenti e circa l’80%, sono giovani uomini di età non superiore ai 35 anni. Poi c’è una fetta crescente di minori non accompagnati, metà dei quali non si sa che fine faccia. Si parla tanto di accoglienza e poi si lasciano sparire cinquemila bambini nel nulla.
Nei Paesi dell’Africa subsahariana esistono pubblicità che incitano ad andare in Italia, spiegando che qui è tutto gratis. E in effetti lo è. I benefit per i migranti presenti sul nostro territorio sono molto importanti e vanno dai trasporti gratis, le visite e tutte le medicine in forma gratuita, le card per le ricariche telefoniche e per la spesa al supermercato.
Oltre a questo da tenere in seria considerazione sono i professionisti che ruotano intorno al fenomeno, cioè psicologi, mediatori culturali, operatori, medici, tutti pagati dalla comunità italiana.
In Grecia non sbarca quasi più nessuno da quando è stato siglato l’accordo con la Turchia. Se chi pensa di venire in Italia ha la certezza di essere rimandato indietro, non avendo le caratteristiche per ottenere l’asilo, alla fine desiste. Manca la volontà politica.
In Canada, ad esempio, anno per anno, si individuano la quantità e le tipologie di lavoratori che sono realmente assorbibili dal mercato di lavoro in modo tale che chi arriva può essere davvero integrato professionalmente nella società canadese. L’Australia, invece, è riuscita a imporre il principio “fermare le navi, per fermare i morti” perché il governo ha fatto passare il messaggio “Sappiate che la nostra accoglienza è limitata, e oltre un certo limite noi saremo costretti a fermare le navi”.
Cosa aspetta l’Italia a fornire una risposta adeguata al fenomeno dei migranti economici?
Beatrice Ciminelli