Al di là dei pubblici pronunciamenti, che in politica rappresentano sempre merce a basso costo, la crisi profonda che il mondo sta attraversando da circa un anno e mezzo ha messo a nudo la necessità che vengano rivisti profondamente alcuni meccanismi nell’economia, per cercare di evitare che si ripetano le circostanze che hanno portato sull’orlo del crack il villaggio globale dell’economia. A parte le necessarie limitazioni alla finanza eccessiva (pia illusione, infatti tutto sembra tornato a due anni fa, con bonus in via di distribuzione ai manager di Wall Street e della City londinese per oltre 20 miliardi di dollari!) sono necessarie delle riforme che mettano il sistema economico in grado di affrontare un mondo profondamente cambiato. Per tornare all’Italia, si pensa di mettere mano ancora una volta al sistema fiscale, alleggerendo le aliquote delle fasce più deboli, e al contempo dare agevolazioni alle imprese che investono. In un momento di finanza pubblica molto sofferente, tuttavia, è difficile immaginare che si allarghino i cordoni della borsa: il rischio è che misure destinate a creare consenso politico determinino ammanchi di cassa con benefici tutto sommato molto limitati per i cittadini. La questione italiana è di natura strutturale: la spesa pubblica per oltre il 75% è destinata a stipendi e pensioni, e solo quindi meno di un quarto delle risorse complessive è destinato a spese per manutenzioni e nuovi investimenti (in tutti i settori, dalle infrastrutture alla sanità, dalla scuola alla ricerca ecc…). Quindi parlare di seria riforma del sistema pensionistico – per esempio – non significa tagliare la pensione a chi già la percepisce, ma pensare che il sistema è notevolmente cambiato da quando fu pensato, la vita media si è allungata, il tenore di vita è migliorato. Le risorse che si libererebbero potrebbero andare ad investimenti produttivi a beneficio delle giovani generazioni. Le riforme costano, si sa, in termini di risorse e di consenso, da qui si vede se una classe dirigente è all’altezza del suo ruolo. In linea generale si esige un fisco giusto non vessatorio né ricattatorio, è strumento decisivo di regolazione dello Stato sociale, insieme a un sistema sostenibile di previdenza. Entrambi devono essere “servizi” certi e non un minaccioso assillo. Solo così il “contratto sociale” ha il senso di un autentico bene per tutti gli italiani. Riguardo al federalismo fiscale al Sud pare una strada lastricata di tagli. Si rileva qui che la copertura della spesa corrente con i tributi propri (Irap, addizionale regionale Irpef, tasse universitarie etc.) delle regioni ordinarie italiane che è pari al 45,6% ma tocca valori minimi come il 31,3% in Campania, il 30,2% in Puglia, il 29,6% in Umbria, il 22,3% in Calabria e il 21,6% in Basilicata. La Basilicata, dove il tasso di copertura è pari al 21,6%, per raggiungere il tasso medio nazionale (45,6%) dovrebbe aumentare la copertura di 24 punti. Insomma si ha paura che il federalismo fiscale diventa non un meccanismo per ridistribuire le risorse, nel segno della perequazione e della solidarietà, ma un meccanismo per trattenere all’interno di territori e delle aree più ricche una quota maggiore della ricchezza prodotta, per reinvestirla per il vantaggio di quell’area e non di tutto il Paese; occorre che il federalismo fiscale sia davvero solidale ed efficiente. Se economia e politica non sono vissute nella solidarietà, non ci saranno mai vera giustizia e bene comune.